Il rischio di volersi vedere riconosciuta.
In una buona negoziazione così come in una sessione di coaching (e nella vita di relazione in genere) può essere necessario “guidare” gli altri verso conclusioni alle quali da soli non arriverebbero o a cui arriverebbero ma non nei tempi utili.
Per fare ciò ti sarà necessario mettere in secondo piano il tuo bisogno di riconoscimento e gratificazione che può derivare dal proporre tu direttamente la soluzione alla tua controparte-cliente. In questo modo certamente affermeresti la tua capacità, bravura, competenza e velocità di pensiero rispetto all’altro e potresti pur credere di aver velocizzato il processo verso le azioni da intraprendere. Ma è così?
In tutti questi anni di pratica professionale ho imparato alcuni meccanismi sottili che regolano i comportamenti degli esseri umani; uno dei più importanti è il seguente: le persone sono più contente se raggiungono certe conclusioni da sole così da credere che ciò di cui si sono convinte è tutto frutto del loro ragionamento senza alcuna influenza esterna. E bada bene che questo è altrettanto vero per la maggior parte di coloro i quali cercheranno il tuo aiuto: vorranno giungere alle “loro” conclusioni pur partendo dal tuo consiglio.
Le persone sono più contente se raggiungono certe conclusioni da sole.
Verso queste decisioni prese in autonomia (rispetto a quelle calate dall’alto da qualcuno bravo, intelligente e più veloce di loro) le persone tenderanno a canalizzare maggiori risorse psicologiche e si sentiranno più impegnate a darvi seguito attraverso le loro azioni concrete. Questo impegno è, in fondo, ciò che vuoi perché è determinante per permettere alle persone di agire .
A volte, però, la scala dei tuoi valori personali può essere organizzata così da avere in cima il “riconoscimento” (della tua abilità, bravura, intelligenza, competenza, scaltrezza, eccetera) e questo può generare una spinta verso comportamenti controproducenti.
La paura di non vedere riconosciuto il tuo contributo, il valore che apporti alla risoluzione di un problema o al processo nel raggiungimento di un obiettivo può impedirti di usare un approccio indiretto. Il rischio? Dare indicazioni anziché usare domande per indirizzare la persona, per mettere in luce: errori di logica, contraddizioni nelle credenze personali e, in generale, “mappature del mondo” troppo limitate rispetto al territorio tanto da non essere utili per orientarsi correttamente.
Se soddisfi l’ego, difficilmente avrai intorno a te persone efficaci.
Cosa fare allora? Ordinare le priorità in testa: cosa vuoi ottenere alla fine dello scambio con questa persona che hai di fronte? Il riconoscimento che sei brava, veloce, scaltra e che hai avuto una buona idea a cui rispondono con un “non so”, “ci penserò”, “però non sono convinto”, o un flebile “farò”? Oppure vuoi che agisca decisa, convinta che ciò che vuole è il risultato di un processo di ragionamento tutto suo in cui tu puoi non essere stata parte rilevante?
Se soddisfi l’ego ti dovrai accontentare del riconoscimento e rischiare di non vedere agire le persone intorno. Se vuoi costruire una vita di relazioni efficaci (e hai bisogno che le cose accadano davvero) allora apprezzerai il modo indiretto, discreto, quasi invisibile di far giungere gli altri alle “soltanto loro” conclusioni di valore.
Nel primo caso sarai un po’ invidiata, a volte pure un po’ antipatica e circondata da persone inefficaci, incoerenti e indecise. Nel secondo caso, intorno a te, le persone si sentiranno meglio, più sicure, prenderanno decisioni a cui seguiranno azioni coerenti e saranno più efficaci … anche se non sarà affatto merito tuo 😉.